4.22.2010

L'atmosfera elegante ed austera di quella stanza, la patina un po' stantia su quel corpo piagato dal tempo. Immobilizzato dal collo ai piedi, la sedia a ruote, i lineamenti del viso corvini, tesi, possenti, bellissimi. I capelli grigiastri ai lati, ispidi, elettrici, si diradano con rigore. Le sopracciglia folte, inarcate verso l'alto, gotiche. Un fascino mitteleuropeo, espressionista. Il naso enorme. Uno dei due occhi era quasi completamente richiuso su se stesso. Praticamente la totalità dello spirito che animava quell'uomo emergeva alla luce del mondo solo attraverso quello spiraglio, quel piccolo, lucente, vertiginoso occhio. Parlare con lui, cercare la sua persona significava guardare quell'occhio, guardarlo parlare. E la sua voce, posata, francese nella cadenza e nella musicalità. Una voce lieve, aggraziata eppur tagliente, acuminata: curve strette e sinuose ne disegnavano le profondità.
“Vede, Shopenhauer diceva per esempio che “il mondo è una mia rappresentazione”, lei vede che il mondo non è mai una nostra rappresentazione privata, gli altri sono già in noi, la soggettività è un prodotto della intersoggettività, il mondo è una proiezione di un 'armonia di monadi...”
Si perdeva spesso in divagazioni solipsistiche, poteva parlare per ore e ore con lo stesso tono eternamente ritornando su quelle melodie, con gli stessi intercalare. Al punto che spesso a quel fascino iniziale poteva subentrare quasi il sospetto che egli fosse, diciamo, finto, che fosse una sorta di fantoccio. O che si fosse completamente rincoglionito. In fondo non si muoveva. Se non fosse stato per quell'occhio. Poi però emergeva di colpo dalla sua distanza e scalfiva con il cuneo della sua dialettica affilata l'aria appesantita, dandole la parvenza di una luce nuova, caricandola di energia. Non poteva essere finto anche questo, pensavo.

Le tende di quella camera erano color d'arancia, come lo era il tuo vestito, quel pomeriggio di chissà quanti anni fa. Ritrovare quel morbido assopirsi del pensiero su un cuscino troppo corto, i tuoi capelli. Ma come? E poi: il nulla o il dolore, il nulla o il dolore? Per adesso un po' di dolore e una vile paura di penetrare nella caverna buia che conduce al nulla. E la tua pelle, più sottile di ogni nulla, più tremenda e dolce del dolore, mi richiama a sé, sequestrandomi dal mondo. Quanto pathos.



“Se il bello morale è unito all'utile io ci punto i piedi. Se il bello morale è unito all'utile io ci punto i piedi. Se il bello mo...” Camicia hawaiana, sudaticcio in volto, lo sguardo in bilico tra il sovraeccitato e il potenziale suicida: uno splendido quaranticinquenne intratteneva i clienti del bar, agitava qua e là il suo bicchierino d'amaro. Catturava ogni sguardo che poteva, come se dall'attenzione altrui dipendesse in qualche modo la sua sopravvivenza. Giorgio lo lasciava fare, dall'alto della sua silenziosa, epicurea corpulenza. Fece di più. Prese il cd di Tenco dallo scaffale e lo fece partire, solo un pezzo, sempre quello, a ripetizione. Tenco e l'ometto sudato. Giorgio, il suo gelato artigianale, la salamoia e l'ora troppo, troppo tarda. Disperazione. “Dove il nulla è ancora qualcosa, dove il nulla è ancora qualcosa, dove il nulla è ancora qualcosa” era il nuovo ritornello del sudato. Dove il nulla è ancora qualcosa. C'eravamo ormai cascati in mezzo, spinti da una certa malsana – e cinica – curiositas per il mysterium tremendum et fascinans di quel baretto sulla spiaggia, dopo la chiusura.


La prima signora, Rossella, è seduta nella penultima fila del secondo blocco di poltrone, uno dei primi posti da destra. La seconda, Bruna, arriva e fa per sedersi nella fila subito dietro, l'ultima, più o meno dietro Rossella. Appena si accomoda l'altra, casualmente voltata, la riconosce.


  • Bruna! Quanto tempo...

  • Rossella! Sì, è un sacco di tempo che...

  • Come stai, sei ancora là...mi sfugge il nome del...

  • No, no, ora abito più vicino, hai presente i Rosoni? Un paio di vie più in là.

  • Ah, hai traslocato...

  • Sì, ormai è un po'. Tu lavori ancora...?

  • No, ho finito! Era pure ora!

  • Pensione?

  • Eh già, da pochissimo, da qualche mese. Tu? Tuo figlio come sta?

  • Mio figlio ha...quasi ventisei anni!

  • Ventisei anni...incredibile. E...che fa di bello?

  • Mio figlio...lavora. Per l'Agip...petrolio. (la risposta è data con un pò di esitazione. E' chiaro che Bruna ama suo figlio, si vergogna di dire che fa il benzinaio ma sa che in fondo è un ragazzo d'oro. Nonostante questo è intimorita e si sente anche un po' inferiore rispetto all'amica, che evidentemente fa parte di uno strato sociale economicamente più elevato, la cui ideologia comprende l'accettazione della cultura – o meglio di un inculturamento almeno di facciata - come fattore valorizzante della persona, insieme all'obbligo moralistico di seguire un iter di studi di un certo tipo)

  • Ah. Ma...si è diplomato?

  • Sì, sì, e ha vissuto cinque anni fuori...

  • Ah! All'estero?

  • No...in...Basilicata.

  • Ah, beh...E' un po' come all'estero là, no?

  • Eh, già, ma ora è tornato, a vivere con noi. (Qui Bruna tradisce addirittura un accenno di commossa e dirompente felicità di madre al pensiero che il figlio sia tornato a vivere con lei.)

  • Sta per cominciare. Ma tu hai visto anche il film che è appena finito?

  • No, ma ero qua anche ieri...

  • Sempre per la rassegna?

  • Sì, sì, ne ho visto un altro di Antonioni ieri. Un po' lento...


Si fa buio in sala, le due conoscenti interrompono sbrigativamente la conversazione, partono le prime scene del film, credits in sovraimpressione. “Il deserto rosso” di Michelangelo Antonioni.

Da notare nel film il passaggio di un autocisterna con il logo dell'Agip.