5.04.2010



“...E la verità consiste precisamente in quest'avventura, scegliere l'oggettivamente incerto con la passione dell'infinità”. Scegliere l'oggettivamente incerto con la passione dell'infinità. Incerto, passione. Infinità. Ancora niente, forse è meglio che me ne torni a dormire. Infinità. Osare perdere, osare l'impossibile, osare la confusione. Ci si può solo perdere. Qua vado a finir male, mi devo calmare. Però non è questione di romanticismo. E' che vivo ancora dentro la mia bolla, dove la rivoluzione si fa tra un caffè e l'altro, alla macchinetta. Però però. Questa cosa che sento qui, preme sul mio petto. Se solo lei arrivasse, ora, e sentisse. Le dirò del sogno, degli sportelli che bruciano e tutto il resto... Se ne stava seduto al bar della stazione, con la testa ficcata tra le pagine di un libro. Ogni due o tre minuti alzava furiosamente gli occhi in direzione del tabellone degli arrivi, sperando che apparisse il numero del binario. Non si era mai fidato così tanto delle sensazioni. Procedeva per intuizioni folgoranti sulla base delle quali era in grado di stravolgere l'intero piano della sua esistenza. Aspettava dei segni, li cercava assetato di situazioni viscerali. Per il resto non aveva alcuno scopo, se non quello di cercare di non dare troppo nell'occhio a chi giudicava esternamente le sue azioni.

4.22.2010

L'atmosfera elegante ed austera di quella stanza, la patina un po' stantia su quel corpo piagato dal tempo. Immobilizzato dal collo ai piedi, la sedia a ruote, i lineamenti del viso corvini, tesi, possenti, bellissimi. I capelli grigiastri ai lati, ispidi, elettrici, si diradano con rigore. Le sopracciglia folte, inarcate verso l'alto, gotiche. Un fascino mitteleuropeo, espressionista. Il naso enorme. Uno dei due occhi era quasi completamente richiuso su se stesso. Praticamente la totalità dello spirito che animava quell'uomo emergeva alla luce del mondo solo attraverso quello spiraglio, quel piccolo, lucente, vertiginoso occhio. Parlare con lui, cercare la sua persona significava guardare quell'occhio, guardarlo parlare. E la sua voce, posata, francese nella cadenza e nella musicalità. Una voce lieve, aggraziata eppur tagliente, acuminata: curve strette e sinuose ne disegnavano le profondità.
“Vede, Shopenhauer diceva per esempio che “il mondo è una mia rappresentazione”, lei vede che il mondo non è mai una nostra rappresentazione privata, gli altri sono già in noi, la soggettività è un prodotto della intersoggettività, il mondo è una proiezione di un 'armonia di monadi...”
Si perdeva spesso in divagazioni solipsistiche, poteva parlare per ore e ore con lo stesso tono eternamente ritornando su quelle melodie, con gli stessi intercalare. Al punto che spesso a quel fascino iniziale poteva subentrare quasi il sospetto che egli fosse, diciamo, finto, che fosse una sorta di fantoccio. O che si fosse completamente rincoglionito. In fondo non si muoveva. Se non fosse stato per quell'occhio. Poi però emergeva di colpo dalla sua distanza e scalfiva con il cuneo della sua dialettica affilata l'aria appesantita, dandole la parvenza di una luce nuova, caricandola di energia. Non poteva essere finto anche questo, pensavo.

Le tende di quella camera erano color d'arancia, come lo era il tuo vestito, quel pomeriggio di chissà quanti anni fa. Ritrovare quel morbido assopirsi del pensiero su un cuscino troppo corto, i tuoi capelli. Ma come? E poi: il nulla o il dolore, il nulla o il dolore? Per adesso un po' di dolore e una vile paura di penetrare nella caverna buia che conduce al nulla. E la tua pelle, più sottile di ogni nulla, più tremenda e dolce del dolore, mi richiama a sé, sequestrandomi dal mondo. Quanto pathos.



“Se il bello morale è unito all'utile io ci punto i piedi. Se il bello morale è unito all'utile io ci punto i piedi. Se il bello mo...” Camicia hawaiana, sudaticcio in volto, lo sguardo in bilico tra il sovraeccitato e il potenziale suicida: uno splendido quaranticinquenne intratteneva i clienti del bar, agitava qua e là il suo bicchierino d'amaro. Catturava ogni sguardo che poteva, come se dall'attenzione altrui dipendesse in qualche modo la sua sopravvivenza. Giorgio lo lasciava fare, dall'alto della sua silenziosa, epicurea corpulenza. Fece di più. Prese il cd di Tenco dallo scaffale e lo fece partire, solo un pezzo, sempre quello, a ripetizione. Tenco e l'ometto sudato. Giorgio, il suo gelato artigianale, la salamoia e l'ora troppo, troppo tarda. Disperazione. “Dove il nulla è ancora qualcosa, dove il nulla è ancora qualcosa, dove il nulla è ancora qualcosa” era il nuovo ritornello del sudato. Dove il nulla è ancora qualcosa. C'eravamo ormai cascati in mezzo, spinti da una certa malsana – e cinica – curiositas per il mysterium tremendum et fascinans di quel baretto sulla spiaggia, dopo la chiusura.