4.22.2010


Le tende di quella camera erano color d'arancia, come lo era il tuo vestito, quel pomeriggio di chissà quanti anni fa. Ritrovare quel morbido assopirsi del pensiero su un cuscino troppo corto, i tuoi capelli. Ma come? E poi: il nulla o il dolore, il nulla o il dolore? Per adesso un po' di dolore e una vile paura di penetrare nella caverna buia che conduce al nulla. E la tua pelle, più sottile di ogni nulla, più tremenda e dolce del dolore, mi richiama a sé, sequestrandomi dal mondo. Quanto pathos.



“Se il bello morale è unito all'utile io ci punto i piedi. Se il bello morale è unito all'utile io ci punto i piedi. Se il bello mo...” Camicia hawaiana, sudaticcio in volto, lo sguardo in bilico tra il sovraeccitato e il potenziale suicida: uno splendido quaranticinquenne intratteneva i clienti del bar, agitava qua e là il suo bicchierino d'amaro. Catturava ogni sguardo che poteva, come se dall'attenzione altrui dipendesse in qualche modo la sua sopravvivenza. Giorgio lo lasciava fare, dall'alto della sua silenziosa, epicurea corpulenza. Fece di più. Prese il cd di Tenco dallo scaffale e lo fece partire, solo un pezzo, sempre quello, a ripetizione. Tenco e l'ometto sudato. Giorgio, il suo gelato artigianale, la salamoia e l'ora troppo, troppo tarda. Disperazione. “Dove il nulla è ancora qualcosa, dove il nulla è ancora qualcosa, dove il nulla è ancora qualcosa” era il nuovo ritornello del sudato. Dove il nulla è ancora qualcosa. C'eravamo ormai cascati in mezzo, spinti da una certa malsana – e cinica – curiositas per il mysterium tremendum et fascinans di quel baretto sulla spiaggia, dopo la chiusura.

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