L'atmosfera elegante ed austera di quella stanza, la patina un po' stantia su quel corpo piagato dal tempo. Immobilizzato dal collo ai piedi, la sedia a ruote, i lineamenti del viso corvini, tesi, possenti, bellissimi. I capelli grigiastri ai lati, ispidi, elettrici, si diradano con rigore. Le sopracciglia folte, inarcate verso l'alto, gotiche. Un fascino mitteleuropeo, espressionista. Il naso enorme. Uno dei due occhi era quasi completamente richiuso su se stesso. Praticamente la totalità dello spirito che animava quell'uomo emergeva alla luce del mondo solo attraverso quello spiraglio, quel piccolo, lucente, vertiginoso occhio. Parlare con lui, cercare la sua persona significava guardare quell'occhio, guardarlo parlare. E la sua voce, posata, francese nella cadenza e nella musicalità. Una voce lieve, aggraziata eppur tagliente, acuminata: curve strette e sinuose ne disegnavano le profondità.
“Vede, Shopenhauer diceva per esempio che “il mondo è una mia rappresentazione”, lei vede che il mondo non è mai una nostra rappresentazione privata, gli altri sono già in noi, la soggettività è un prodotto della intersoggettività, il mondo è una proiezione di un 'armonia di monadi...”
Si perdeva spesso in divagazioni solipsistiche, poteva parlare per ore e ore con lo stesso tono eternamente ritornando su quelle melodie, con gli stessi intercalare. Al punto che spesso a quel fascino iniziale poteva subentrare quasi il sospetto che egli fosse, diciamo, finto, che fosse una sorta di fantoccio. O che si fosse completamente rincoglionito. In fondo non si muoveva. Se non fosse stato per quell'occhio. Poi però emergeva di colpo dalla sua distanza e scalfiva con il cuneo della sua dialettica affilata l'aria appesantita, dandole la parvenza di una luce nuova, caricandola di energia. Non poteva essere finto anche questo, pensavo.
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